
Le parole non mi hanno mai tradita, mi aiuteranno ancora.
Ci sono libri che possiedono il dono, raro, di essere intelligibili come un dipinto. Anzi, sono lettere e parole e tratti e segni gettati con rabbia e furore su di una tela. Sono essi stessi, questi libri, un dipinto. Questo è Parla, mia paura di Simona Vinci. Una vertigine dolorosa, una caduta inevitabile nel dolore. Un atto di coraggio, soprattutto, che chiama in causa l’abisso della paura. Coraggio, paura. Scrittura e parola, da un lato, sofferenza e dolore dall’altro. Inestricabilmente avvinti, in una lotta senza fine.
Non si nasconde, l’autrice. Non si nasconde e, anzi, nel corso della narrazione si spoglia del dolore e della radice in cui affonda questo dolore, la malattia – la depressione – con cui si trova a fare i conti giorno dopo giorno e che, come cattiva coscienza, la tiene sotto scacco. Quel dolore che afferra la gola, fa incespicare il respiro, soffoca e raggela il sangue nelle vene, il cuore che esplode.
Lei, la depressione, che sa dedicarsi con pazienza certosina alla tua morte e lo fa con sadico piacere. Muori e sei vivo. Muori e lo vorresti, di morire. A volte succede, che si muoia per depressione, e si chiama suicidio. A volte non succede, a volte succede per puro caso e uno si arrende. Altre volte, sempre per puro caso, uno non riesce ad arrendersi. Non c’è molto altro. Anzi, sì. C’è il libro. E in questo libro c’è Simona Vinci, la sua vita e la carne e il sangue e i nervi della sua vita e delle persone che hanno incrociato il suo cammino. E c’è l’arte di una scrittrice, che la spinge ad utilizzare la parola come strumento di salvezza. La utilizza, la parola scritta, raccontando e raccontandosi, senza pudore e senza veli. La parola scritta che da fiato alla paura e la fa raccontare. E la paura che parla e che si fa ascoltare e che diventa libro. Pagina bianca che prende forma sotto l’incalzare del dolore. Tela e dipinto di una donna che danza, ha danzato e danzerà ancora con il fantasma indicibile della paura.