Roberto Bolaño ( Santiago del Cile, 28 aprile 1953 – Barcellona, 14 luglio 2003).

Accidenti, mi sembrava di sentir invecchiare cose e persone secondo dopo secondo, tutti intrappolati in una corrente di tempo che portava solo a dolore e tristezza.

Raccontare Roberto Bolaño attraverso il suo primo romanzo edito, La pista di ghiaccio, porta con se l’emozione di assistere ad un varo, ad una inaugurazione. È una primizia, un piacere profondo, vedere all’opera i primi cenni di quel talento e di quella tecnica narrativa che avrebbero reso l’autore cileno uno dei punti di riferimento della letteratura mondiale nei primi anni del nostro secolo. Non è tanto la trama di questo noir atipico, la vicenda che si dipana in un paese non specificato, Z., della Costa Brava raccontato a tre voci e sempre in prima persona, a far emergere la forza narrativa di Bolaño. E nemmeno la struttura del suo romanzo d’esordio, ripresa poi nelle opere successive, che pure è singolare come solo un cubo di Rubik letterario sa esserlo. È la sua bravura di scrittore, che vuol dire poco o nulla, ma abbiate pazienza, il segreto non-segreto che emerge tra le pagine de La pista di ghiaccio

Il sudore, le lacrime, i tremori dettati dall’ansia, l’afa e l’aria stagnante di un pomeriggio d’agosto. Ecco, leggere Bolaño è sentire su di se, sulla propria nuda pelle, queste sensazioni, è viverle in prima persona. Meglio, Bolaño riesce nell’impresa di rendere sensibile ai sensi di chi legge la sua parola scritta. In questo si cela l’immortalità e, concedetemi, la perenne contemporaneità di Roberto Bolaño.