Se tuttavia dovevo indicare, subito dopo l’istinto di sopraffazione, il male che mi sembrava precedere gli altri, l’avrei rintracciato in una particolare solitudine. La solitudine che, tanto più se affollata, ci fa marcire nel nostro ego, e che è tutt’uno con la paura di non essere compresi, di venire feriti, derubati, danneggiati, la paura che ingrassa le nostre sfere invisibili, che ci porta a calcolare nell’angoscia, la paura attraverso cui passa, pervertito, persino il bene che ci sforziamo di fare.

Può un testo contenere una voce sua propria, da non confondere con quella dell’autore, un sapore, un odore? E se la risposta è affermativa, quale la parola impressa su carta uso mano avoriata, il tipo utilizzato da Einaudi per pubblicare La città dei vivi del barese Nicola Lagioia, possiede una tale energia da rendersi cosa concreta e quindi percepibile, ai sensi del lettore? Questa parola è solitudine.

La città dei vivi e gli elementi della struttura

La città dei vivi è un libro in cui sono presenti tre elementi che risultano fondamentali per comprensione della struttura narrativa. Il primo, l’omicidio di Luca Varani ad opera di Manuel Foffo e Marco Prato. Il secondo che chiama in causa l’autore e riguarda i turbamenti provati da quest’ultimo nel momento in cui è venuto a conoscenza dell’accadimento – attraverso larichiesta di scriverne un reportage giornalistico. Infine il terzo, la città, Roma.

Tre elementi necessari, fondamentali l’uno all’altro per la piena comprensione della vicenda pena la riduzione della medesima a omicidio e a cui rimarrebbe solo un’unica verità, quella giudiziaria. Mentre l’autore immergendosi in questo caso di cronaca, brutale ed efferato, racconta altro, molto di più. È lo scandagliare l’abisso dell’animo umano e l’abisso di una città. Un viaggio nella disperazione in cui tre uomini, schiacciati nel proprio io dalle aspettative famigliari e dallo stigma della società che li circonda, sprofondano nell’abisso senza rendersene conto.

Il gioco degli opposti, luce e buio, vita e morte.

Come un gioco di bambini. I due assassini, uomini fragili dalle identità professionali e di genere confuse, in balia delle proprie debolezze e della paura di guardare dentro di sé per non trovare il fallimento o il nulla, fuggono la responsabilità alle proprie azioni. Questo lo fanno abbandonandosi ad un uso smodato di cocaina e alcolici. Uno stato che porta a vivere un perenne delirio in cui tutto diventa indistinguibile. Frontiere e confini cedono, la notte diventa giorno e viceversa, il bene è il male e il male è bene, la vita e la morte. Tutto è il contrario di tutto e tutto è possibile.

L’appartamento dove si consuma l’assassinio è la voragine che racchiude fisicamente, se si potesse quantificare il male, tutto il male di Roma. Roma, la città dei due papi e senza sindaco. La città senza guida politica ma amministrata, in sua vece, dalla criminalità. Ed ecco le indagini che hanno scoperchiato il malaffare di Mafia Capitale e del suo mondo di mezzo.

Narrare la solitudine

La città dei vivi non è un reportage giornalistico tramutatosi in testo narrativo. Non si tratta di una non-fiction novel sul genere del capolavoro di Truman Capote “A sangue freddo”. No, Lagioia mentre è intento a raccontare tre giovani uomini alle prese con le loro vite dissolute, racconta di sé e di un dolore che non lo ha abbandonato dall’infanzia sino alla maggiore età. Racconta di come la solitudine, soprattutto se affollata, possa farci precipitare, tutti e senza distinzione, nell’abisso in cui a contare è solo il nostro ego, in cui l’io, e la soddisfazione dei suoi desideri, si tramuta nell’unica unità di misura conosciuta e applicata.

Lagioia compie un atto di coraggio feroce, richiamando il titolo del libro “La ferocia” con cui vinse lo Strega, mettendo a nudo se stesso e, soprattutto, mettendo a nudo un’umanità indicibile ai più e che, in misura diversa, trova rifugio in ognuno di noi.