
La parola che mi faceva (e mi fa ancora) tremare, una parola nuda, stuprata da molti e da molti onorata in silenzio, era “bontà”
Un racconto lungo, un’esperimento, una ricerca che si sviluppa su più piani narrativi che, inevitabilmente, si intersecano e condizionano vicendevolmente. Questo è Bontà di Walter Siti, romanzo breve ça va sans dire il cui campo magnetico è la parola. Parola intesa come Verbum, punto di partenza, origine che tutto determina e da cui tutto scaturisce e prende forma.
Una parola che è prima ambizione – frustrata – e velleità per il protagonista, il settantacinquenne Ugo, nella sua rinuncia ad affermarsi come scrittore e che, successivamente, sempre la parola, è lavoro e vita quotidiana in quanto di professione è impiegato presso una importante casa editrice. A fianco del mondo della parola che si fa letteratura e mercato, si affianca il privato di Ugo. Uno spazio vuoto, in cui risentimento, dolore e angoscia si avvinghiano mortalmente sino a portare il protagonista a cercare la morte nell’amore. Porre fine a quello staccarsi dal mondo e disperatamente desiderare quel che il mondo può offrire – usando come vile compromesso quel giocattolo storto che è la letteratura. Questo è il progetto di Ugo. Porre fine, recidere nettamente. Ma nulla è come appare, e […]
[…] Ugo si spaventa, niente è come aveva progettato.