Bret Easton Ellis ( Los Angeles, 7 marzo 1964), è uno scrittore e sceneggiatore statunitense.

Ma il suo stile [la scrittrice Joan Didion], le sue scelte estetiche, facevano vendere qualsiasi cosa scrivesse, e questo suo credere nello stile, e alla precisione della sua scrittura, in apparenza azzeravano le questioni ideologiche: era una realista, una pragmatica, sintonizzata sulla logica e sui fatti, ma prima di tutto aveva stile – e come per tutti i grandi scrittori, era nello stile che si trovava il significato del suo lavoro.

Libertà. Il sostantivo femminile libertà, di derivazione dal greco antico eleutheria, è la parola con cui si conclude Bianco, l’atteso libro di Easton Ellis edito nel 2019. Ed è la cifra di fondo, insieme allo stile inteso come metro ultimo di giudizio di uno scrittore, che rende prezioso Bianco.

Un’opera che si svolge su due piani, che si intrecciano e rincorrono senza soluzione di continuità, a tratti aggrovigliati l’uno all’altro. Quella dell’uomo, raccontato a partire dalla sua adolescenza, e quella dello scrittore e dell’intellettuale calato nelle contraddizioni – e ripercussioni, per le sue prese di posizione mai scontate – che si trova a vivere di volta in volta nella sua cerchia di mondo, sia che si tratti della politica americana con l’elezione di Donald Trump o, più prosaicamente, rispetto all’agibilità e alla mutazione di senso percepito per chi si trova a comunicare attraverso i social. Bianco è questo, un libro in cui l’elemento autobiografico pare in realtà risultare l’espediente utilizzato da Ellis per introdurre un saggio, in cui soprattutto la produzione cinematografica, magistrali le pagine dedicate ad American Gigolò e alla figura di Richard Gere, viene utilizzata per cercare di spiegare la profonda mutazione, anche antropologica, avvenuta nella cultura americana – Bianco è un libro profondamente se non unicamente americano, i riferimenti culturali sono tutti compresi tra L.A e New York – a partire dalla metà degli anni Ottanta.

E allora, ecco il ritorno alla liberà di Easton Ellis. La sua ironia pungente, il suo dadaismo di fondo, che lo portano a vivere con preoccupazione e a vedere con distacco la sclerotizzazione del mondo culturale che l’autore di American Psycho vede scivolare in un pericoloso dogmatismo di maniera, per alcuni versi assimilabile, in questo, al maccartismo degli anni cinquanta del XX secolo. Una deriva che permea tanto l’industria cinematografica hollywoodiana quanto la cultura liberal americana, di cui pure Ellis è uno dei rappresentanti, condannata per la sua presunta superiorità morale rispetto all’altro da sé che rischia seriamente, come conseguenza, di castrare la libertà – eccola, di nuovo – di ricerca e sperimentazione dell’artista. Un pensiero unico liberal hollywoodiano a cui, in definitiva, doversi in qualche modo assoggettare, pena l’esclusione e la ghettizzazione dal mondo dell’arte, e in questo è emblematico l’affaire Kanye West. Ecco in azione il dogmatismo ideologico liberal il quale si arroga il diritto di emettere una sorta di fatwa indirizzata ai non allineati o a rappresentanti della fazione opposta e urlata tanto nei talk show della sinistra culturale sclerotizzata quanto alla cerimonie di premiazione degli Oscar e dei Golden Globe.

Ellis, in ultimo, rivendica la libertà, la libertà di poter esprimere la sua voce unica di scrittore ed il suo stile.

[…]ma prima di tutto aveva stile – e come per tutti i grandi scrittori, era nello stile che si trovava il significato del suo lavoro.